Storia di Francesca, OSS in una Rsa: «I pazienti meritano di più. E anche noi»

Il racconto

«Alle sei del mattino iniziamo a svegliare gli anziani, confortandoli quando ne hanno bisogno. Li spogliamo delicatamente, li laviamo e asciughiamo velocemente ma con cura, perché ci sono tempi da rispettare: meno di dieci minuti per ospite. In questi dieci minuti dobbiamo assicurarci di verificare lo stato della pelle, quindi la presenza di eventuali piaghe e medicarle. Ci assicuriamo poi che abbiano un aspetto curato, anche nel vestiario, cercando in ogni passaggio di garantire dignità e privacy». Francesca – il nome è di fantasia perché preferisce mantenere l’anonimato – racconta la sua vita da OSS, acronimo che sta per operatrice socio sanitaria, in una Rsa della provincia. Utile, necessaria, ma sempre più in difficoltà. «La nostra assistenza vacilla – spiega -, il carico di lavoro non consente di occuparci di ogni singolo ospite come meriterebbe. Non vi è più quasi nemmeno lo spazio per briefing e lavori in equipe, per confrontarsi con le altre figure professionali, andando a deteriorare la qualità dell’assistenza«.

Vorrebbe di più Francesca, per i pazienti, per lei e per la sanità pubblica: «Loro meritano di più e noi meritiamo di essere meglio riconosciuti e aiutati a fare meglio il nostro lavoro. Sappiamo che è un lavoro indispensabile, non ci tiriamo indietro, ma deve essere riconosciuto che è anche complesso e faticoso, sia mentalmente che fisicamente».

Francesca non crede che sia un problema della struttura in cui opera, pensa sia più generale: «Bisogna trovare il modo per mitigare questa situazione che ci mette a dura prova. Non è responsabilità della singola struttura, che spesso cerca con tutte le forze di rimanere a galla, ma è un problema nazionale e di gestione della sanità pubblica».

Qui il suo racconto per intero.

All’interno delle RSA per anziani, le Case di riposo, soggiornano molti ospiti che affrontano l’ultima
parte della loro esistenza. Madri, padri, nonni e bisnonni, sono stati professionisti e professioniste
o casalinghe; quando arrivano all’interno delle strutture sono anziani, spesso fragili e stanchi,
alcuni confusi, altri spaventati. Normalmente i parenti passano in visita ogni volta che possono.
Qualcuno tutti i giorni, qualcuno un paio di volte a settimana. Il conforto dei parenti sta nel
pensare che il proprio caro è curato e seguito. In tempo di pandemia però, dove l’accesso ai
parenti viene negato per motivi di sicurezza, tutto diventa più difficile e si soffre l’ansia di pensare
alla madre o al padre da soli.

Il maggior contatto con un’altra persona l’anziano lo vive con noi OSS, gli operatori socio-sanitari.
Alle sei del mattino iniziamo a svegliare gli anziani, confortandoli quando ne hanno bisogno. Li
spogliamo delicatamente, li laviamo e asciughiamo velocemente ma con cura, perché ci sono
tempi da rispettare – meno di dieci minuti per ospite. In questi dieci minuti dobbiamo poi
assicurarci di verificare lo stato della pelle, quindi la presenza di eventuali piaghe e medicarle. Ci
assicuriamo poi che abbiano un aspetto curato, anche nel vestiario, cercando in ogni passaggio di
garantire dignità e privacy. Dobbiamo poi applicare protesi dentali o apparecchi acustici, per poi
portarli in salone per la colazione. Tutte queste operazioni vengono scolte ogni giorno, con 8 o 10
ospiti per operatore, in un tempo che va dalle 06 alle 09 del mattino. In tutto questo troviamo
comunque il modo di comunicare con loro, anche per farli sentire parte di un sistema che li
comprende.


Siamo i primi osservatori delle condizioni degli ospiti, dei loro cambiamenti o peggioramenti, dei
piccoli dettagli fondamentali alle altre figure per poter intervenire. Spesso si pensa al lavoro degli
OPSS come pure manovalanza, ma in realtà il nostro ruolo è molto più complesso e delicato.
Cerchiamo di essere una figura a metà tra il tuttofare e l’amico. Ci occupiamo infatti del lato
pratico – facendo tutto ciò che gli ospiti non sono in grado di fare in autonomia – e dall’altra parte
li sosteniamo e li incoraggiamo a fare da soli, per quanto sia possibile per loro. Li stimoliamo poi al
dialogo e al ricordo, ci rendiamo conto se sono più o meno agitati o confusi rispetto al solito, se è
cambiato il colorito del volto, se sono più affaticati o rispondono in modo diverso, e ogni
cambiamento lo segnaliamo all’infermiere professionale (che da solo in una struttura deve gestire
anche 60 ospiti).


Ma anche la nostra assistenza vacilla, il carico di lavoro non consente di occuparci di ogni singolo
ospite come meriterebbe. Non vi è più quasi nemmeno lo spazio per briefing e lavori in equipe,
per confrontarsi con le altre figure professionali, andando a deteriorare la qualità dell’assistenza.
Certo ci sono le consegne informatiche, ognuno per il proprio reparto di competenza, ma poi non
si mettono insieme i vari pezzi. La sensazione che si prova è quella di fare un lavoro che non
importa a nessuno. Il nostro compito dovrebbe essere quello di rendere la vita dei nostri residenti
vivibile, di valore e degna; ma al momento siamo solo numeri che coprono un turno di lavoro,
senza che venga tenuto in conto quanto sia delicato il lavoro che svogliamo. Serve infatti forza
mentale e fisica per occuparsi di persone che non possono più prendersi cura di loro stesse.
Lavoriamo poi sotto organico, con tempi molto risicati, occupandoci di infinti aspetti. Il lavoro è
usurante e dopo anni accusiamo i sintomi di logorio fisico – problemi alle spalle e ginocchia – e
mentale, come il rischio burn-out, come per tutte le altre figure sanitarie. Il tutto si è ovviamente
aggravato con lo scoppio della pandemia.
Si pensa spesso di mollare o cambiare lavoro, ma questo lavoro è invece molto appagante, quando
fatto con pazienza e quando gli operatori sono tutelati. Abbiamo infatti la possibilità di poter
ascoltare le storie dei nostri ospiti, di ridere con loro, spesso ci affezioniamo a loro e loro a noi. È
bello saper di essere d’aiuto e poter stabilire un legame di fiducia e rispetto. Purtroppo, pensare
solo al far quadrare i conti si sta rivelando il modo peggiore per affrontare questa parte di vita in
RSA. Se pensiamo che pochi minuti per l’igiene personale – nemmeno sufficienti per un giovane –
non sono certo abbastanza per garantire l’assistenza adeguata agli ospiti delle RSA. Sono infatti
rallentati dall’età, molto fragili a livello fisico. Intanto si professa poi il mantenimento delle
capacità residue per permettere all’ospite di continuare a fare ciò che gli riesce in autonomia, ma
non viene lasciato il tempo per permetterlo: lasciare infatti che un ospite si lavi da solo richiede
più tempo che farlo noi per loro, e non è questo lo scopo del nostro lavoro. Purtroppo tutto è
calcolato sui tempi, con uno staff spesso numericamente insufficiente; se poi un ospite vuole
parlare con noi, lo deve fare mentre lo manipoliamo, senza potergli prestare l’attenzione e
l’ascolto che si meritano.


Loro meritano di più e noi meritiamo di essere meglio riconosciuti e aiutati a fare meglio il nostro
lavoro. Sappiamo che è un lavoro indispensabile, non ci tiriamo indietro, ma deve essere
riconosciuto che è anche complesso e faticoso, sia mentalmente che fisicamente. Non si può
pensare che un’operatrice di 60/65 anni sia in grado di occuparsi di un anziano compromesso
fisicamente e mentalmente, che abbia la forza fisica necessaria per le varie manovre. Quando
arriva il nostro pensionamento, siamo davvero provati che fatichiamo a goderci il riposo che ci
siamo meritati.
Bisogna trovare il modo per mitigare questa situazione che ci mette a dura prova, e non è
responsabilità della singola Struttura, che spesso cerca con tutte le forze di rimanere a galla, ma è
un problema nazionale e di gestione della sanità pubblica.